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martes, 31 de enero de 2012

LA FINE DEL MONDO

Prima di arrivare alla frontiera con Ecuador facemmo tappa a Mocoa, una cittadina ai limiti con la giungla vera. Fino a un paio di anni fa questa zona non era raccomandabile, insomma, potevi inciampare in qualche episodio di guerriglia, ma ora stanno iniziando ad aprire le attivita' ricettive e a fare un po' di propaganda turistica. Noi accampammo nel giardino di un ostellino famigliare ancora in costruzione, ma che gia' iniziava ad ospitare le prime persone. Sistemazione economica, davanti al fiume e con uso di cucina. I proprietari sono brava gente e la gente che lavora per loro, tra cui i muratori, simpatici e di compagnia. In questa parte della Colombia la gente con tratti indigeni e' un po più numerosa e una signora che aiutava in cucina la famiglia, ci spiego' che avvengono anche grandi riunioni tra la gente indigena e che ce n'era appena stata una in cui avevano parlato della terra e soprattutto delle compagnie canadesi che qui sono padrone delle miniere d'oro e che stanno facendo bordelli ambientali vari. Insomma, un po quello che sta succedendo in Patagonia. In generale, comunque, di indigeni in Colombia ne son rimasti pochi e le vere e proprie comunita' sono poco raggiungibili, sia per la posizione, che per la loro stessa volonta'.

Anche a Mocoa ogni sera la pioggia veniva a darci la buonanotte, ma la nostra casetta ambulante come sempre non ci abbandono'. Unico inconveniente gli insetti. Vicino alla nostra tenda passeggiavano allegramente formiche giganti che sembra possano mandarti a letto tre giorni se ti beccano. Per fortuna non fu il caso. Una notte mi svegliai all'improvviso e senza sapere perché accesi la pila e iniziai a illuminare la tenda qua e la'...finche' mi accorsi che sulla zanzariera, dalla parte esterna, c'era il ragno più grande che avessi visto dal vivo. Stava la' a guardarmi... Ma la maledizione peggiore furono le zanzare: mi massacrarono le gambe, quasi non ci dormivo. E va beh, mica si puo' andare nella giungla e non trovare insetti! La cosa più figa del posto, invece, e' il cosiddetto “Fin del Mundo”, cioè un percorso in mezzo al bosco, che, dopo un susseguirsi di cascatelle e belle pozze dove fare il bagno, termina con una cascata di 80 metri. Sembrava che la terra finisse di colpo. Davanti a noi c'era un panorama splendido e vastissimo ma se facevi un passo in più adios, finivi spiaccicato tra le rocce sottostanti. Un cartello diceva che per guardare giù e' consigliato distendersi e sporgere solo la testa... Non ho le prove, perché la mia macchina fotografica ovviamente mori' sul più bello, ma vi assicuro che ho visto la fine del mondo. Altro che Nostradamus, altro che Maya!

Mentre stavamo per andarcene dall'ostello, arrivarono un ragazzo e una ragazza colombiani che stavano girando il paese per preparare un programma di televisione sulla Colombia, l'eco turismo e gli sport estremi e volevano intervistare la famiglia. Riuscimmo a scroccare un passaggio sul loro bel fuoristrada sponsorizzato dal programma e percorremmo insieme la strada presa peggio di tutta la nazione: quella che da Mocoa arriva alla Laguna della Cocha, vicino a Pasto, dove dovevano andare loro. Tra una buca e l'altra, una ripresa e l'altra e un guasto e l'altro, ci facemmo delle belle chiacchierate. L'idea del programma l'aveva avuta lui 8 anni prima e finalmente il sogno si stava avverando: viaggiare sponsorizzati e facendo cose che ama fare. Ci dissero che in progetto c'era anche il resto dell'America Latina. Magari ci rivedremo in Patagonia!

Arrivati alla Laguna della Cocha, rimanemmo incantati dalla bellezza del paesino; una Venezia a 2800 metri con casette colorate e barchette di legno. Mi venne subito la voglia di fermarmi e quando incontrammo una italiana, un messicano e un peruviano che avevano messo il loro camper (portato da lei dall'Italia) davanti a un canale decidemmo che il nostro viaggio terminava la', salutammo i nostri accompagnatori, accampammo vicino al camper e mangiammo insieme ai nostri nuovi amici una bella pasta alle verdurine fatta dalla ragazza italiana.

Fu interessante notare che, a 2400 metri, il rifugio dove lavoriamo in Val d'Aosta e' circondato da pietre e qui vicino all'equatore, invece, a 2800 metri c'è' ancora la vegetazione e i paesini! In ogni caso il clima era molto più freddo rispetto a Mocoa.

Ci addormentammo sotto il solito acquazzone.

Il giorno dopo andammo a farci un giro con una barchetta e facemmo il viaggio in camper fino a Pasto, dove le nostre strade si divisero: loro andavano verso nord, noi verso sud, la frontiera era ormai ad un passo.




domingo, 29 de enero de 2012

TERRA DI SCULTORI


Dopo una breve visita a Popayan, splendida cittadina coloniale, seguendo il consiglio di molti viaggiatori incontrati lungo il cammino, andammo a San Agustin.
Grazie a due simpatici signori del posto trovammo accoglienza in una casa fuori paese in cui vive la signora Ortencia e la sua famiglia. Con soli 10000 pesos, cioe' meno di 5 euro avevamo una stanza indipendente tutta per noi e uso di bagno e lavatoio (per vestiti e piatti) in giardino in comune con la famiglia. Per cucinare c'era a disposizione un barbecue e della legna vicino all'orto. La nostra stanza condivideva una parete con il pollaio e percio ogni mattina venivamo svegliati dal gallo che sembrava a letto con noi! Le galline passavano la maggior parte del tempo in giro dove pareva loro, tanto che dovevamo assicurarci di tenere chiusa la porta della stanza per non trovare una sorpresina al rientro. Certo la sistemazione non era delle più comode, ma dopo il secondo giorno già eravamo a nostro agio. Dall'altra parte del patio in una casetta separata stava vivendo da un mesetto una coppia argentino-peruviana lei artigiana in viaggio e maestra a Buenos Aires, lui giocoliere. Ovviamente legammo da subito. La signora Ortencia ogni mattina ci offriva caffe con panela (la condensazione del succo della canna da zucchero) e qualche dolcetto quando ne faceva per la famiglia. L'idea era di fermarci un paio di giorni ma non potemmo rifare le valigie prima di una settimana. Provammo anche il business di vendere pagnottelle fatte in casa (al barbecue) di vari sapori (alla pizzaiola, all'aglio, alla cipolla e alle olive) ma quando arrivammo al fiume, luogo scelto strategicamente per il lancio del nostro prodotto, l'ora di pranzo era già passata e la gente era già con la pancia piena. Vendemmo due panetti guadagnando ben 2 euro. Beh, guadagnando no, se si considerano le spese. Il fallimento del lancio determino' la demoralizzazione dei cuochi e la rinuncia dell'impresa.
Decidemmo di dedicarci all'arricchimento culturale e ci immergemmo in ciò che si rivelo' un piacere per gli occhi, per il cuore e per lo spirito: le sculture precolombiane della zona. L'aera di San Agustin e' infatti uno dei siti archeologici più importanti della Colombia. Le statue, che sono finemente incise sulla pietra, si possono trovare nel Parque Arqueologico de San Agustin e in altre aree tra le colline circostanti. Questa zona 2000 anni fa era abitata (300 a.C. - 1 d.C) e poi, fino al 900, venne adibita alla sola sepoltura dei morti e probabilmente alle relative cerimonie. Vennero scavate varie colline che diedero alla luce tombe maestose e centinaia di statue monolitiche, alcune delle quali conservano i colori originari. La scoperta risale al 1757, ma non venne considerata seriamente fino all'inizio del secolo scorso, anzi, nel mentre avvennero saccheggi che impedirono uno studio più accurato della cultura. Comunque e' abbastanza evidente che in questo antico popolo vi erano delle differenze di classe infatti le tombe dei “nobili” o capi clan erano meglio adornate e spesso coperte sia da un sarcofago che da una statua e situate su tumuli di terra, sia per un motivo mistico, quello di avvicinarle al Sole, sia per una ragione piú pratica, ovvero preservarle da possibili inondazioni. Il popolo veniva invece interrato in tombe più semplici e nessuna statua veniva collocata all’entrata della tomba.
Le statue rappresentano per lo più shamani durante i loro rituali, con la faccia coperta da una maschera. Alcune hanno in mano il poporo, ossia il vasetto di argilla in cui veniva contenuta il miscuglio di cenere e calce che con un paletto veniva portato alla bocca allo scopo di liberare le sostanze alcalinoidi delle foglie di coca che masticavano. Altre rappresentano il shamano durante un suo viaggio, ossia mentre assumeva lo yaje, una bevanda estratta da una pianta che provoca il vomito e allucinazioni e che ancora viene usata nelle comunità' indigene per ripulire corpo e anima (molti shamani vendono la “pulizia” ai turisti, ma sembra che di questi ultimi, non tutti hanno la fortuna di partecipare ad un rituale ben fatto e ad opera di un vero e bravo shamano..chissà se noi durante il viaggio riusciremo ad avere questa possibilita'...). In alcune sembra essere rappresentato proprio il momento del vomito a causa del trip! Altre statue raffigurano animali con alto valore simbolico come la rana, che simboleggia la pioggia e la fertilità, il serpente, che significa vita e morte in gran parte delle culture pre-colombiane, i roditori, come esempio di fertilità, e il giaguaro e l’aquila, simboli di forza e maestositá. Anche la figura femminile e la fertilità sono riprodotte in molte sculture cosi come quella del guerriero. Sembra che a quel tempo fosse più importante la casa del morto che quella del vivo, infatti delle capanne in cui passavano la vita terrena le persone, anche le più ricche, non rimane che i buchi con pietre in cui affondavano i pali che sostenevano le pareti. Nelle tombe, vennero trovati anche oggetti che rimandano alle loro attivita': questa cultura si dedicava soprattutto all'agricoltura, specialmente di mais e yuca e alla lavorazione dell'oro.
Il contesto montagnoso e collinare in vicinanza alla sorgente di ben due fiumi che attraversano tutta la Colombia per sfociare nel mar dei Caraibi rende il posto ancora più magico e intriso di energia e le splendide camminate per raggiungere i vari siti aiutarono a connetterci con questa antica cultura cosi prospera e spirituale.



jueves, 26 de enero de 2012

LA COLOMBIA DEL CAFFE' E DEL NON CAFFE' NELLA ZONA DEL CAFFE'

Mamma mia come sono indietro col blog....

...dunque correva il giorno 4 di gennaio...

...giusto giusto per la festa del paese arrivammo! E per di più di sera, percio' a Salento, ormai, una stanza per passare la notte era un'impresa trovarla. Dopo aver camminato un bel po' con gli zainoni tra gente in festa e viuzze un po' più isolate ma piene di fango, decidemmo di prendere l'unica stanza libera disponibile, anche se per una notte ci chiese 50000 pesos, cioe' 25 dollari. E va beh, ne approfittammo per usare internet e farci finalmente una doccia non fredda in un bagno risplendente. Salento, nonostante il nome evochi lu mare, lu sole e lu vientu, e' un paesino molto carino della regione del Quindio, che fa parte di quello che in Colombia chiamano el eje cafetero – l'asse “caffettiero”, ossia, la zona del caffe', nel centro del paese, gia' sulla cordigliera. In qualche modo direi che e' un rifugio di artigiani, infatti i negozi di questo tipo si susseguono nella via principale e le bancarelle in piazza. Le viuzze sono a scacchiera ma molto carine, con casette bianche fatte di terra che ti accompagnano in salita fino alla piazza principale, quadrata, in stile coloniale, con il parchetto in mezzo, la chiesa su un lato, la polizia, il municipio e le altre istituzioni sugli altri. Dal Mirador, a una decina di minuti dalla piazza, c'è un panorama stupendo della valle e le passeggiate, a piedi o a cavallo, sono la cosa migliore da fare. La festa mi ricordava molto il periodo di natale a Taganga, dove la gente metteva fuori dalle proprie case casse giganti per ascoltare la cumbia a palla, fino al punto di storpiarla. Cio' che ne risultava era un bordello generale e voglia di togliere la corrente. Qui il bordello era solo in piazza, ma quando i colombiani ascoltano la musica lo fanno in modo che possano ballare anche nei pianeti vicini.

Noi, dopo aver comprato qualche Cuca (dolcetto tipico) e chiacchierato con qualche artigiano, fuggimmo a Boquia, a valle, dove trovammo asilo in casa di Mar, una donna speciale. Dire casa e' riduttivo, in quanto si tratta di un mondo a parte. Mar e' una artista viaggiatrice che dopo aver vissuto e girato in varie parti del mondo, tra cui anche l'Italia, una ventina di anni fa inizio' a piantare specie autoctone di piante e alberi vicino a un terreno occupato da alcune famiglie che lei stessa stava aiutando affinche' potessero avere i servizi basici e la scuola. Un po' alla volta inizio' a formarsi il bosco e, per rifugiarsi e riposarsi mentre lavorava a questo progetto, comincio' a costruire piccole parti di quella che poi sarebbe diventata la sua casa. Una volta comprato il terreno si batte' affinche' quella piccola giungla nel mezzo di colline spogliate dai campi di caffe' diventasse una riserva naturale e cosi' fu. Ora varie specie di uccelli cinguettano qua e la e il bosco e' cosi fitto che se non curasse costantemente i sentierini non si potrebbe passare. Ci disse che era stata la riserva a regalarle la casa perché naque un po' cosi', spontaneamente. E' una casa fatta soprattutto di bambu, legno e materiale reciclato e puo' ospitare una quarantina di persone. La sala principale e' all'aperto e le sue pareti sono il bosco stesso. In ogni dove ci sono dipinti, sculture e impronte artistiche. Fantastica! Noi accampammo vicino al fiume, tra palme e bambu. Passammo una settimana in compagnia sua e di una giovane attrice di teatro ecuadoriana col suo meraviglioso e simpaticissimo bambino di tre anni. Nella casa c'era anche una ragazza colombiana, sempre artista, ma un po' più occupata e presa da un progetto a cui stava lavorando. Le giornate passavano aiutando Mar in qualche lavoro, inventandosi giochi con il bimbo, preparando insieme buonissimi pranzi e cene e godendoci la pace del luogo e il rumore della pioggia che ogni sera puntualmente scoppiava con forza. La nostra tenda resisti' perfettamente e la mattina dopo era splendido sbucare fuori e venire avvolti da quel verde intenso illuminato dal sole. Era difficile decidersi ad uscire da quel paradiso, ma per fortuna qualche volta ci riuscimmo e ne risultarono interessanti passeggiate.

Camminando per queste zone a volte si prende una viuzza piccolina e sterrata che sembra portare semplicemente ad un fiume, o ad un bosco e, senza saperlo, si entra in altri mondi: sono las veredas, ossia delle frazioni rurali pululanti di vita. In una di queste, dopo aver fatto una bellissima passeggiata lungo il fiume e su per una collina, arrivammo ad una piccola finca cafetera biologica, cioe' una fattoria dove si coltiva il caffe'. Don Elias, e' un uomo sulla settantina, dai capelli e i baffoni bianchi, molto elegante, sia nel vestire che nell'essenza. In realta' l'eleganza degli abiti era forse dovuta al fatto che stava per andare in paese, ma in ogni caso non si rifiuto' di portarci in giro per la finca e spiegarci il processo con cui fanno il caffe'. Le piante vengono coltivate insieme alle palme di banane che servono anche a fare loro ombra mentre sono piccole. Sono arbusti con foglie di un verde intenso e i chicchi di caffe' sono ricoperti da una guaina che quando e' matura diventa rossa. Solo allora e' possibile raccoglierli e metterli in una macchina che, entrando in funzione con una manovella, separa i chicchi dalle bucce. I primi vengono sciacquati e le seconde riutilizzate come fertilizzante. Una volta “nudi”, i chicchi vengono messi a seccare in una serra di naylon sopraelevata per poi venir tostati in una pentola e triturati con un'altra macchina manuale. La visita termino' con una bella tazza di caffe' biologico preparato dalla moglie, mentre un pugno di ragazzini correva qua e la'.

Questa zona e' stata completamente disboscata per far spazio al business del caffè, ma in realtà ci sono molte meno piantagioni rispetto ad una volta, forse a causa della concorrenza con il caffè africano, che e' più economico. Fatto sta che molti campi ora sono adibiti a pascoli e la mancanza di vegetazione, sia autoctona che no, ha provocato un innalzamento della temperatura.

A cercare di rimediare ci sono realtà come quella dell'ecoaldea Mama Lulu'. Questa era un tempo una finca cafetera, finche', nel 1984, la famiglia che la lavorava si trovo' davanti alla decisione di trasformarla in qualcos'altro o lasciarla e andare a cercare fortuna in citta'. Fortunatamente decisero di tirarsi su le maniche e convertire la coltivazione di caffe' in una insieme di coltivazioni diverse per l'autosostentamento della famiglia, a partire dagli alberi autoctoni fino alla frutta e la verdura per il consumo ma anche canna da zucchero, vegetali per gli animali, cacao, caffe e ovviamente bambu per la costruzione. La finca funziona secondo un piano eccellente di permacultura, che prevede produzione di biogas per la cucina attraverso le feci degli animali, fitodepurazione delle acque nere e grigie tramite un sistema di vasche e piante, pompaggio dell'acqua per il consumo da una sorgente con un sistema meccanico che si chiama ariete (che io non avevo mai visto ma che mi ha fatto innamorare a prima vista!), raccolta delle acque piovane per la pulizia delle stalle e per l'allevamento di alcuni pesci per l'autoconsumo. Il tutto in meno di un ettaro di terreno! E in più organizzano visite guidate e corsi e ospitano turisti per poter condividere la loro esperienza e poter essere un esempio di perseveranza, lotta per la salvaguardia ambientale, autosufficienza e semplicità.

Siamo orgogliosi di scoprire in ogni angolo del mondo splendide realta' di RESISTENZA.



martes, 17 de enero de 2012

COLOMBIA CARAIBICA

Taganga e' un paesino molto gettonato, non solo dai colombiani, ma anche da stranieri, per lo più artigiani, giocolieri, musicisti, fricchettoni e backpackers vari. Il mare e' cristallino, anche se la baia di fronte al paese e' un po' più “vissuta” di quelle man mano più lontane, ci sono sentierini sulle colline circostanti e tanta vita notturna, per lo più di strada e spiaggia. Ogni 10 metri si trova un carretto che vende deliziosi e freschissimi succhi di frutta caraibica che, con questo caldo, e' davvero difficile rifiutare e altri carretti tra cui quelli delle Arepa ossia panetti piatti bianchi fatti con farina di mais o gialli fatti con mais triturato con dentro formaggio, ma anche senza niente. E poi i vari teli degli artigiani, soprattutto argentini, ma anche del resto del sud america o gringo. Ah, si inizia a respirare lo spirito dell'America Latina!

Dopo aver lasciato l'ostello, che costava un po' troppo, abbiamo trovato un bel camping in cui Ted ha affittato una cameretta e noi abbiamo piantato la nostra tenda. Si tratta della casetta di Mr Willson, un parrucchiere gay che, oltre al suo negozio e alle stanze in cui vive, ha creato un paio di camere per gli ospiti e messo a posto il giardino in modo che possano accampare una decina di tende e qualche amaca. E' un luogo modesto ma Mr Willson lo tiene con cura e amore. L'atmosfera e' rilassata e trascorriamo una bella settimana in compagnia di un gruppo di ragazzi che girano con musica e spettacoli: un circo formato da quattro argentini, due francesi e una brasiliana che si sono conosciuti al Bolson, in Patagonia (il mondo e' piccolo!) e altra gente che si unisce via via, al momento con loro c'erano una boliviana ed una americana. Girano il mondo regalando sorrisi nelle zone più povere o tristi: ci han raccontato per esempio che sono appena stati in un paese nel sud della Colombia dove c'è la guerriglia, i paramilitari e i coltivatori di coca. Li' han fatto uno spettacolo ed han detto che i bimbi, che ovviamente non vedranno molta gente da fuori e tanto meno pagliacci e giocolieri, non credevano ai loro occhi! Credo che solo per questo sia valsa la pena. Poi ogni tanto si fermano in una città, o in un posto turistico e fanno qualche performance ai semafori o in giro per tirare su qualche soldo prima di ripartire. E ovviamente si godono anche il posto, e, in questo caso, il mare e la fiesta!

Vicino a Taganga c'è la Riserva Naturale Tayrona, dove io e Nico siamo stati 4-5 giorni, al riparo dalla bolgia di gente che ha scelto Taganga per le feste natalizie. Questa Riserva e' stata dichiarata Parco Nazionale del 1969 e ricopre un'area di 15000 ettari, di cui 12000 terrestri e 3000 di fascia marina. Ci sono varie specie di uccelli, tra cui l'aquila e vari mammiferi, rettili, serpenti e granchi e in mare si possono vedere coralli (io non ne ho visti) e diversi pesci. Sono stati giorni di relax, di mare, di raccolta e scorpacciate di cocco e camminate a piedi scalzi nei sentieri della giungla per andare da una spiaggia all'altra. Il paesaggio e' da quadro e ti lascia senza parole. Ovviamente il parco era un tempo abitato dal popolo Tayrona, ma questo prima che arrivassero gli spagnoli. Ora qualche comunità vive nella sierra, cioè sulle montagne di Santa Marta e qualcuno si vede in giro, di bianco vestito, a vendere qualche cosa di artigianato. A due orette dalle spiagge, se si percorre un sentiero in salita in mezzo alla giungla, o un sentiero di pietra, che dev'essere stato la via principale, (questo e' impressionante: scaloni e scalette di pietra per chilometri in mezzo ad alberi e massi) si arriva a Chairama, o Pueblito, la prima città Tayrona che lascia pensare ad un passato di splendore di questa gente. Si tratta di resti archeologici di un luogo ben organizzato, in cui venivano svolte attività commerciali, agricole e religiose. Tra l' XI e il XIV secolo d.C., ospitava circa 4000 persone. Sembra che quello che oggi si vede sia solo un terzo di ciò che appariva in quell'epoca e che l'ingegneria usata sia di altissimo livello. Oltre al sentiero in pietra in mezzo alla giungla, infatti, nella città si vedono ancora vie, canalizzazioni di fiumi, canali per la gestione dell'acqua piovana nelle abitazioni, muri di contenimento per il controllo dell'erosione, terrazze per la costruzione degli edifici e aree per le coltivazioni, ponti monolitici e scale. Inoltre nella piazza principale dove ci sono le fondamenta del tempio, rimangono anche un paio di menhir che probabilmente, insieme ad altri ora scomparsi, venivano usati per misurare il tempo. La forma della città sembra avere una connessione con il sole, come se ne marcasse il percorso, dall'alba al tramonto, vedendolo passare per la piazza cerimoniale esattamente a mezzogiorno. All'alba il sole sembrava indicare la piazza minore, cioè quella del commercio, dove avvenivano gli scambi soprattutto tra quelli che scendevano dalla sierra nevada e quelli che salivano dal mare. Durante la mattina, passava sopra alle terrazze adibite all'agricoltura e quando arrivava alla piazza principale probabilmente i Tayrona mangiavano e riposavano. Nelle ore serali, quando il sole camminava verso ponente e faceva un po' più fresco, si dedicavano ai lavori nelle proprie case e quando finiva il suo cammino, i Tayrona si ritiravano nelle grotte cerimoniali e osservavano le stelle entrando in contatto con l'aldilà. Il centro della via principale e' attraversato da un fiumiciattolo in cui probabilmente si rinfrescavano sguazzando felici come ha fatto la sottoscritta. Ah che meraviglia!

Al nostro ritorno a Taganga, Ted era partito per l'Ecuador. Probabilmente lo rivedremo la' tra qualche settimana.

Dopo 5 o 6 ore di autobus siamo arrivati a Cartagena, una splendida cittadina coloniale in stile spagnolo. Qui veniva immagazzinato l'oro che gli spagnoli sottraevano agli indigeni nell'attesa che i galeoni lo portassero in Europa che in quel tempo stava inciccionendosi della linfa vitale del nuovo continente. Furono espropriati averi (gli indigeni indossavano splendidi gioielli da loro lavorati) e saccheggiate tombe. Questo traffico durò secoli e quindi Cartagena era un ottimo bersaglio per i pirati. Per difendere la città e i loro affari, gli spagnoli costruirono una splendida cinta muraria. Nel museo dell'Oro sono esposti i pochi oggetti rimasti. Il metallo veniva preso dai fiumi (non potrei assicurare che fosse oro, ma nel Parco Tayrona nuotavamo tra luccichii dorati mai visti in nessun altro posto) e lavorato con diverse tecniche. I fiumi non regalavano solo l'oro, ma anche ricchezze nei raccolti. Infatti nell'epoca precolombiana queste zone soggette ad inondazioni venivano coltivate egregiamente, soprattutto a mais, yuca, zucca, fagioli. I Casique, cioè i capi dei villaggi, in quel tempo lavorano per il bene della loro gente e avevano predisposto piani molto efficienti: nei campi venivano scavati solchi distanti tra loro pochi metri che raggiungevano perpendicolarmente il canale principale. Quando arrivava l'inondazione l'acqua si incanalava nei solchi lasciando asciutte le collinette che li separavano, sulle quali coltivavano o costruivano le loro case. Gli abitanti si spostavano con una canoa e non soffrivano per l'inondazione, anzi, ricavavano da essa i nutrienti per la terra. Dopo l'arrivo degli Spagnoli tutto questo e' andato perso ed oggi le inondazioni distruggono case e creano catastrofi. Nelle aree rurali (la maggior parte), tra i solchi e le collinette che da qualche parte si possono ancora vedere pascolano mucche. Nella zona non si vede più nemmeno un piccolo orticello, solo tante case umili, disoccupazione e televisioni accese.


jueves, 5 de enero de 2012

VENEZUELA DAL FINESTRINO - Cronache di una frontiera sotto Natale

Mercoledì 21, dopo ore di fila per pagare la tassa di uscita dal Paese in un ufficio dal quale si accede attraverso un magazzino, lasciamo Trinidad and Tobago. Per raggiungere il suolo venezuelano prendiamo un traghetto, anche se sembra di entrare in una discoteca: per 5 ore il nostro viaggio è accompagnato da musica a palla. E quando dico a palla voglio dire che non si riesce nemmeno a parlare. Quando dico musica, invece, intendo dire reggeton, cumbia e un po' di ip pop. Va beh, musica di merda, tanto x capirci. In compenso c'è gente che balla, gente che va a conoscere altra gente e gente che beve. Esattamente come in un locale. Non siamo più i soli bianchi, vedo il traghetto come una transizione tra popolo nero “yes man all right man” e popolo latino. Un miscuglio. E poi ci sono altri backpackers che si godono la scena e, nel possibile cercano di fare due chiacchiere.

Arriviamo a Guiria, in Venezuela, con un ritardo di 2 o 3 ore perchè non solo la cosa non era molto ben organizzata durante la procedura della tassa di uscita, ma il traghetto è poi rimasto fermo con noi sopra un'altra ora prima di far scendere 3 persone che evidentemente non avevano le carte in regola. I passaporti una volta al porto ce li stampa, in un tavolino del bar del ferry, una signora che sembra una prof delle medie.

Dobbiamo cambiare soldi perchè qua non si trovano uffici di cambio ovunque e perchè sembra che il mercato ufficiale paghi meno di quello illegale e dobbiamo capire come andarcene dal porto dato che a quest'ora gli autobus son finiti. Nel frattempo le voci sulla pericolosità del posto e sulla corruzione di belli e brutti si fanno molteplici e un ragazzo spagnolo viene in nostro soccorso: vive in Venezuela da 3 mesi lavorando per una associazione di volontariato perciò già ha una idea di come ci si muove. Ci aiuta a trattare il cambio con delle persone che, assolutamente illegalmente lo praticano, a quanto dice lui, per lo meno con soldi veri. Poco distante ci sono poliziotti probabilmente corrotti che lasciano fare. Ci arrangia anche un gringo tour accompagnando noi e gli altri biondi con zaino fino al centro della cittadina per trovare un taxi. Spiega che l'unica è prendere un “por puesto”, cioè dei taxi che fanno determinate rotte e che partono solo quando riempiono totalmente la macchina. Riusciamo ad organizzare due macchine e partiamo per Carupano, dove le nostre strade si divideranno. Il taxista, all'inizio restio a parlare, dopo qualche domanda sul cibo si lascia andare e ci facciamo un bel viaggio di 4 o 5 ore parlando di clima, politica, economia e grandi sistemi. Ovviamente non poteva non venir fuori Chavez e sembra che il tipo, pur ammettendo che il presidente alcune cose le ha fatte male, sia uno dei suoi elettori. Intanto piove ininterrottamente e, a quanto dice il nostro nuovo amico al volante, non smette da secoli. La stagione secca dovrebbe già essere iniziata ma quest'anno non si capisce niente. Non so se la pioggia peggiora la percezione, ma la vita che vedo dal finestrino mi sembra molto misera. La gente nelle campagne vive nel fango. Le case non solo sono umili, ma sono dentro a pozzanghere enormi. Il tassista dice che le cose non vanno alla grande, ma che nemmeno il capitalismo se la sta cavando bene ora! Ai muretti ci sono scritte a favore del partito e disegni che rappresentano Chavez. Ci fermiamo per fare benzina. Ecco: la benzina non costa niente. Il nostro amico spagnolo ci dice che lui ha una moto e a volte non ha una moneta abbastanza piccola per pagare il pieno!

Arrivati a Carupano salutiamo spagnolo e venezuelano e con noi rimane un canadese con cui riusciamo a trovare una stanza per quattro non troppo costosa, mangiamo una cosa al volo e parliamo di quanto sia bello il Canada. Il giorno dopo lui va per la sua strada e Ted, Nico ed io riusciamo a prendere al volo un pullman per Caracas, con l'idea di prenderne subito un altro per Maracaibo e infine uno per arrivare in Colombia, dato che siamo tutti d'accordo sul non volerci trattenere, anche xchè piove senza tregua. Tutt'intorno ci sono urla e schiamazzi di gente che vende cibo, o propone taxi o fa salire sugli autobus.

Arrivati a Caracas ci aspetta una sorpresa: non ci sono più bus fino a gennaio. La stazione degli autobus pullula di gente e noi per un attimo temiamo di dover restare proprio nella città in cui non volevamo nemmeno metter piede. Nico fa qualche telefonata e scopriamo che esiste un altra stazione dei pullman. Prendiamo un altro taxi, attraversiamo la città ed arriviamo davanti a sta struttura in cemento con migliaia di persone fuori che urlano cose incomprensibili. Sembra di essere all'entrata di uno stadio in cui tra poco inizierà un concerto! Entriamo e la bolgia si fa sempre più preoccupante. C'è gente in coda, gente seduta, gente che corre, gente che urla. Scopriamo che non ci sono più biglietti nemmeno qua e ci rendiamo conto che la gente che urla sta dicendo nomi di città: pubblicizzano i loro pullman pirata. Non ci resta che prenderne uno. Andiamo nel parcheggio, il casino si intensifica ed io vado con la mente al nostro ultimo viaggio in Norvegia...penso ad Oslo, al silenzio, alle bici e alla gente che cammina tranquilla nell'ordine e nella pace cittadina e mi viene da ridere, forse per non piangere. Mi spingono, mi calpestano con le valigie e intanto respiro fumi di una quarantina di autobus abusivi che non si sa perché devono tutti tenere acceso il motore per ore. Il prezzo di un passaggio in un pullman pirata può arrivare ad essere 3 volte quello di un pullman di linea. Noi riusciamo a pagare solo poco più del doppio e saliamo su questa cosa stracolma di gente e valigie. Conosciamo Giuli, una ragazza colombiana che studia e lavora a Caracas e che deve raggiungere Santa Marta, proprio come noi. E' felice di raccontarci mille cose di Santa Marta e della Colombia e di quanto tutto sia più fantastico li'. Si viaggia di notte ma si dorme poco: veniamo fermati da mille posti di blocco e per mille volte dobbiamo far vedere il passaporto a questi baby poliziotti armati. La musica, rigorosamente cumbia, è al massimo e lo rimane fino a notte fonda, quando io ad un certo punto scoppio e urlo di abbassare. Ovviamente non mi cagano e per fortuna Giuli fa la voce grossa e ci salva almeno fino alle prime luci dell'alba, quando ci riscoppiano i timpani.

Quando arriviamo a Maracaibo, la mattina dopo, fa un caldo boia, ma almeno non piove e non rivedrò mai più quell'autista pazzo e sordo. Penso che il viaggio più brutto della mia vita sia terminato e non vedo l'ora di passare sta frontiera. Giuli ci propone di prendere un “por puesto” e ci capita una macchina scassata con un tipo serio serio. Grazie a Giuli non ci facciamo fottere sul prezzo ma il tipo dice che 4 siamo pochi e va a cercare la quinta persona per riempire la macchina. Torna con 2 e ci ritroviamo ad essere in 7 in un'auto (3 davanti e 4 dietro) e le valige legate nel bagagliaio che non si chiude. La situazione è ardente, nel senso che il motore sotto i nostri piedi riscalda a livelli impensabili il suolo e io temo mi si possano sciogliere le scarpe. Siamo tutti appiccicaticci stretti l'uno all'altro ma Giuli e' simpatica e mi racconta la storia della sua vita. La strada per arrivare alla frontiera è zona dei nativi, degli indios per intenderci. Giuli mi racconta che riescono a trafficare la benzina venezuelana in Colombia, dove è molto cara. Dice anche che molte volte fanno proteste e casini vari e bloccano sto stradone sterrato. Lei però si sente molto legata a loro perché un suo nonno era nativo. L'altro nonno invece era francese ed era un latin lover! Va beh. Lungo la strada i controlli sono uno ogni pochi chilometri e capiamo che i poliziotti vogliono soldi in cambio di non aprirci tutte le valigie. Giuli ci dice che secondo lei c'è un inciucio tra poliziotti e taxista x farci pagare e da brava padrona di casa ci dice di lasciar fare a lei. Rifiuta categoricamente di pagare la mazzetta, dice che non abbiamo niente da nascondere e che è illegale chiedere soldi. Io ammetto che sono abbastanza nervosa. Siamo nel mezzo di una strada polverosa con gente che ci supera da tutte le parti, si muore dal caldo, i poliziotti col pistolone vogliono soldi e la mia compagna di viaggio tira fuori il suo bel caratterino. Alla fine sembra che pagare sia il taxista, probabilmente lui comunque deve superare i controlli cosi perché non avrà i documenti in regola x passare con la macchina la frontiera e voleva fottere noi e farci sborsare a noi i soldoni. I controlli successivi sono sempre meno spudorati e Giuli mi fa vedere la sua tessera universitaria: studia medicina in una università militare e dice che è per questo che i poliziotti ci han lasciati stare, perché se no lei avrebbe potuto denunciarli. Non so se sia per questo, ma certo è che se non c'era lei noi pagavamo, e probabilmente ad ogni posto di blocco! E che devi fare in un paese straniero quando la polizia è cosi? Comunque sembra che l'universo stia castigando il nostro tassista con un bell'attacco di diarrea e quindi si infila in un bosco lasciandoci per un po soli nel caldo della strada.

Penso nuovamente che questa volta non può succedere niente di peggiore ma mi sbaglio: il timbro all'uscita dal Venezuela è un gioco da ragazzi, ma per farsi timbrare il passaporto all'ingresso della Colombia c'è una coda interminabile. La coda è circondata da bancarelle che vendono cibo, e sulla strada passano macchine, moto-taxi, pullman, il tutto alzando polverone su di noi. Il taxista ci aspetta sul lato colombiano (passando la frontiera come se niente fosse, cosi come chiunque voglia.) La coda non scorre e capisco che non c'è limite al peggio quando, un paio di ore dopo il taxista arriva e ci dice che svuota il bagagliaio e se ne va, perché mica puo stare qui fino a mezzanotte. Qui mi incazzo anch'io e gli dico che noi abbiamo pagato fino a Maicao e perciò o ci aspetta o ci ridà i soldi. Dopo un po' ritorna sempre più determinato ad abbandonarci alla frontiera, in mezzo al nulla e con la notte alle porte e qui la nostra paladina della giustizia colombiana chiama dei poliziotti, li porta al taxi e loro lo obbligano ad aspettarci! Nel frattempo io sono in coda e sembra che davanti ci sia gente che vende i posti per entrare prima all'ufficio e dappertutto c'è chi vende timbri falsi. O santo dio, ma quando finirà tutto ciò? Per lo meno chiacchiero un po' con la povera gente che mi circonda: loro stanno solo cercando di tornare a casa per Natale. Una signora dice che tra bus Pirata, surplus valigie e mazzetta alla polizia ha pagato di più che per qualsiasi altro viaggio nella sua vita. Nico rimane col taxista per controllare che non scappi e ogni tanto si da il cambio con Ted e mi racconta di come la gente se vuole passa tranquillamente senza timbro. Insomma, sta frontiera è fatta apposta per non funzionare. O meglio per far funzionare i traffici illegali, droga che va, droga che viene ecc.

Quando riesco a entrare in ufficio sono ormai le 8 di sera. Ho fatto più di 4 ore di coda e non sento più le gambe. Il taxista non è più arrabbiato. In realtà non voleva tornare tardi per questa strada da solo perché aveva paura, povero. Ma ora ha trovato un collega che è nella sua stessa barca e perciò' faranno la strada insieme. Ci molla alla stazione degli autobus di Maicao, dove prendiamo un altro bus pirata perché ovviamente non c'è altro e ci facciamo altre mille ore fino a Santa Marta. All'arrivo Nico mi dice che siamo stati fermi svariate ore perché c'era una protesta che aveva bloccato la strada (di notte???), ma io dormivo e quindi non importa. Sono ormai le 4 quando arriviamo a Santa Marta, non ci resta che salutare la nostra amica colombiana, ringraziarla e prendere l'ennesimo taxi per Taganga, dove finalmente, dopo 30 ore, potremo riposare.

Penso che se avessi preso un aereo sarei stata tranquilla, felice e spensierata, ma non avrei mai visto tutto quello che ho visto. La gente che magari è entrata in Colombia oggi ma atterrando in un aeroporto non si immagina nemmeno minimamente ciò che succede sulla terra, alla frontiera.

Mi ricordo che anche per questo abbiamo scelto di viaggiare via terra.

E mi addormento felice.