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miércoles, 29 de febrero de 2012

L'ACQUA NEL DESERTO: IL PERU E LE GRANDI OPERE PREISPANICHE

Con un misto di tristezza e felicita' nel cuore, abbiamo lasciato l'Ecuador, un paese meraviglioso che ci ha colpito, stupito e affascinato, con la sua varietà di paesaggi (e non abbiamo visto la costa!), la sua viva cultura e la tranquillità che ci ha regalato.
L'attraversamento della frontiera e' ogni volta più facile: per andare in Perù abbiamo deciso di viaggiare di notte, perciò ho solo un vago ricordo della pratica burocratica svoltasi alle 3 della mattina, cosa durata non più di 10-20 minuti, mentre il pullman aspettava che riprendessimo i nostri posti e i fili dei nostri sogni.
Arrivati a Piura tutto mi e' apparso nuovamente rumoroso, incasinato, sporco e allegro come in Colombia. Poi mi e' venuto in mente che forse più che dal Paese dipende dal fatto di essere sulla costa, cosa che in Ecuador non abbiamo sperimentato, etichettandolo, forse per parziale ignoranza, Paese assolutamente tranquillo e pulito. Camminando dal terminal del pullman che ci ha portati qui a quello che ci avrebbe portati a Trujillo (in Perù non esiste una stazione dei pullman, bensì ogni compagnia ne ha una privata, cosa molto più tranquilla, ma anche estremamente scomoda), abbiamo avuto modo di ottenere la nostra prima impressione sulla gente (positiva) e di vedere per la prima volta quello che sarà il mezzo di trasporto per il prossimo viaggio, o anche per la vita quotidiana: un favoloso motorino triciclo, ossia con una cabina dietro con due posti, coperta da un nylon antipioggia! O, ancor meglio, la variante che ha, invece dei posti dietro, un carrello con due ruote saldato alla moto. E' in pratica una sorta di Ape, solo che più veloce e più grande. Ottimo per trasportare materiale nella vita montanara quotidiana e comodo per dormirci mentre viaggi, magari mettendoci sopra la tenda!
Parlando di cose serie, una volta arrivati a Trujillo, dopo qualche ora di pullman attraversando il deserto, abbiamo saggiamente deciso di far base a Huanchaco, un paese turistico sull'oceano e accampare in un ostello-campeggio che, nonostante sia molto rinomato tra i backpackers, ci ha stregato, facendoci stare qualche giorno in più del previsto. E' che aveva tutto ciò di cui un viaggiatore può aver bisogno: cucina, bagni belli e puliti, amache qua e la', connessione internet, ristorantino che faceva una buonissima torta al cioccolato e per finire vista sull'oceano e sui numerosi surfisti che si cementano tra le onde. Una vera oasi nel deserto (beh, dato che faccio pubblicità la faccio fino in fondo: Hostal-Camping Naylamp)! E poi, dopo tanta pioggia, non potevamo credere di poter stare la sera seduti fuori dalla tenda senza venir docciati. Guardiane di questo posto, sono due tartarughe giganti oltre-cinquantenarie che, a quanto dice la tipa della reception, mangiano insalata e ogni tanto sgranocchiano il piccolo San Pedro che c'è' nel giardino...

In questa zona desertica ovviamente non si coltiva niente di niente e mi domandavo come mai fosse cosi densamente abitata. La risposta e' semplice: un tempo qui c'erano alberi, piante, agricoltura. Parlo dell'epoca dei Moche prima e dei Chimu poi. Si tratta di popoli preincaichi (che sono l'uno la evoluzione dell'altro) i quali avevano raggiunto livelli di sviluppo elevatissimi, tanto da costruire un canale che per 84 km, serpeggiando e mantenendo l'esatta inclinazione che permetteva all'acqua di scorrere con una velocità e forza costante senza rompere gli argini, portava l'acqua, e quindi la vita, fino ai loro terreni e alle loro case. Poi un giorno arrivarono gli Inca che – anche loro devono esser stati abbastanza figli di.... – dovendo espandersi ed avendo a che fare con gente tosta, pensarono bene di bloccare il canale, togliendo loro la fonte di vita ed obbligandoli ad arrendersi. Poi arrivarono gli Spagnoli che buttarono giù tutti gli alberi per costruirsi le loro belle chiese e il resto e' storia...e deserto. In ogni caso il canale resta, anche se non porta più acqua ed e' una delle maggiori opere pre-ispaniche in Sud America e vi e' mistero sul metodo di costruzione, mancando qui la ruota, il cavallo e in quella zona la stessa acqua (per questo motivo han fatto il canale). In altri luoghi, invece, altri canali sono ancora funzionanti e dove ci sono loro c'è il verde.
I Moche vivevano in una pianura in cui sbucano due piccoli monti, il Cerro Negro e il Cerro Blanco, ai piedi del quale, in quanto sacro, costruirono la Huaca de la Luna, un tempio di adobe, ossia mattoni di terra cruda, in cui vivevano i sacerdoti che erano la classe religiosa che deteneva il potere. Al suo interno veniva venerato il loro dio al quale veniva offerto il sangue di un guerriero. Lo sfortunato era colui al quale, durante un combattimento, veniva tolto il casco. Una volta individuata la vittima sacrificale, veniva portata all'interno della Huaca (per l'ultima ma anche prima volta, dato che solo i sacerdoti ed alcuni rappresentanti del popolo avevano accesso al luogo sacro), e messa in una stanza per varie ore. Qui, per fortuna dico io, gli davano da bere il San Pedro al fine di purificarlo prima del sacrificio, che avveniva per sgozzamento sopra ad una pietra sacra. Il sangue veniva raccolto e consegnato all'autorità massima che aspettava seduta su una specie di trono, unico posto della Huaca visibile dal popolo, che partecipava dal basso a quel momento. Ogni 80 anni circa, il tempio veniva ricoperto interamente di mattoni e ne veniva ricostruito sopra un altro leggermente più grande. Gli archeologi trovarono, infatti, un edificio grandissimo che pero era accessibile solo nella parte più alta. Dopo aver capito che era formato da 5 livelli, iniziarono a scavare e al momento son riusciti a portare alla luce parti del quarto e del terzo livello. Ognuno e' decorato con altorilievi rappresentanti il dio i cui colori sono ancora evidenti. Nella parte esterna, invece, le rappresentazioni ci raccontano il combattimento dei guerrieri ed il loro sacrificio. Ma chi faceva tutti quei mattoni di terra cruda? C'era forse una fabbrica? No, era il popolo a farli e donarli ai sacerdoti come forma di tributo, infatti su molti mattoni si vedono dei simboli, che sono le “firme” delle varie famiglie.
La storia si fa interessante quando il popolo, stremato da episodi climatici gravi (il niño), inizia a non credere più ai sacerdoti, a mettere in dubbio la religione e si ribella. Da questa “rivoluzione” emerge una sacerdotessa. Anche il quinto livello della Huaca viene tappato ma non per ricostruirne un altro sopra. Il tempio nuovo, infatti, si trova a lato del primo, più in alto perché su una pendice del Cerro Blanco. Anche questa epoca dura poco e il potere viene preso dai capi amministratori che risiedono nella Huaca del Sol, un edificio non lontano alla Huaca de la Luna. Per poter guidare il popolo viene reinventata la religione e la sede sacra cambia (la storia dovrebbe far riflettere e capire il presente...). I sacerdoti e altri esponenti della vecchia casta dominante scappano e iniziano ad occupare un'altra zona, dando vita ad un'altra civiltà.
Tra quelli che rimangono, qualcuno emerge e diventa parte della nuova élite che da' vita alla civiltà' Chimu, che occupa lo stesso territorio, ma la cui sede sacra e governativa viene costruita dove poi, un po alla volta, sorgerà la città di Chan Chan, ossia quella che oggi viene dichiarata la città di barro (terra cruda) più grande d'America. Questo sito archeologico, a differenza della Huaca della Luna che e' privato, e' statale e sembra che ci sia stato un magna magna (ma che strano, anche qui?) e quindi il poco che e' stato messo a posto e che e' visitabile, ha anche qualche problema di originalità' dei pezzi... in ogni caso e' affascinantissimo. Dunque, nel mezzo del deserto c'è questa città' semi-sciolta e semi-sommersa dalla sabbia che continua per km e km. Cio' che si vede son muri di terra deteriorati e mezzi sciolti o addirittura montagnole e dune sotto alle quali stanno i pezzi di muri rimasti, ma che ancora mantengono la loro disposizione originaria e quindi mostrano la forma delle case e delle stanze. In questo posto non piove quasi mai, ma in alcuni anni si e' manifestato il fenomeno atmosferico del Niño che, quindi, con le sue piogge, ha sciolto in parte la città'. La parte dei muri che e' rimasta sotto alla terra che gli si e' sciolta sopra e alla sabbia che e' stata portata dal vento, e' stata per questi motivi protetta ed e' ancora intatta e ben conservata, solo che il governo non ha i soldi per iniziare i lavori e quindi cosi rimane. C'è una zona, pero', che e' stata in parte ricostruita e che si può visitare. Si tratta di un palazzo di uno dei governanti: una muraglia che circondava un'area di una decina di ettari (di cui solo una parte e' aperta al pubblico) e all'interno della quale vivevano il governante, la sua famiglia, i servitori e pochi altri, forse sacerdoti (al momento non ricordo). E' formato da piazze, solo in una delle quali potevano accedervi anche i rappresentanti del popolo, case e corridoi tutte uguali che formano un labirinto in cui era facile, perdersi. Un pozzo enorme, oggi unico punto verde pieno di vegetazione, serviva all'epoca per rituali religiosi e gli altorilievi qua e la' rappresentavano le onde del mare, il niño, le reti da pesca e alcuni uccelli marini, nonostante la loro attività' principale fosse l'agricoltura (qui arrivava il famoso canale che gli inca fecero chiudere). I principi dei popoli sottomessi restavano a vivere all'interno del palazzo, a fianco dei governanti Chimu, ma, nel caso in cui la natura si arrabbiasse (e quindi arrivasse il Niño), l'unica maniera di calmarla e compiacerla era sacrificare un sangue nobile e quindi toccava agli invitati. Quando invece moriva il governante, il palazzo veniva chiuso e diventava un mausoleo. Il nuovo governante si faceva costruire un nuovo palazzo con le stesse caratteristiche e cosi via, ed e' per questo che Chan Chan si e' estesa tanto e ancora oggi si vedono o intravedono le sue mura (non certo per le umili case del popolo che viveva attorno coltivando i campi).

Oggi queste dune desertiche ricordano un passato in cui una civiltà, con un lavoro duro ma ben organizzato riusci a fare delle opere grandiose, non tanto per la superbia di un governante quanto per portare la vita al loro popolo e sembrano, con il loro silenzio, puntare il dito verso un mondo che e' arrivato sulla luna ma non riesce a render fertile la terra dei suoi abitanti.

viernes, 24 de febrero de 2012

PIANTE SACRE PER VIAGGI NEL TEMPO

Vilcabamba vuol dire luogo della Vilca, o Vilco, o Wilko, ossia un albero allucinogeno sacro nella zona. Rumi Wilko e' il nome della riserva (che esiste grazie ad una coppia di argentini che si e' battuta per essa) dove abbiamo campeggiato qualche giorno rilassandoci vicino al fiume in una fitta mini foresta tropicale. Si tratta insomma di una zona sacra, che, un tempo, pululava di questi alberi con poteri “magici” che hanno aiutato generazioni e generazioni a connettersi con il loro intorno e con il cosmo e trarre da questa esperienza ispirazione per la vita quotidiana e per la loro visione del mondo. Oggi la valle e' quasi interamente disboscata, ma in Rumi Wilko e alcune altre zone, si puo' fare esperienza di come deve essere stato questo posto nel passato. Oltre al Wilko, camminando quasi arrampicandosi nella riserva, ci si imbatte in numerosi San Pedro, ossia cactus, anch'essi allucinogeniE purificatori, molto conosciuti in tutta la cordigliera fino al nord dell'Argentina e quindi importanti nella storia andina.

Oggi Vilcabamba e' oggetto di studi scientifici, visite turistiche e un numero sempre crescente di gringo che si trasferiscono qui grazie all'altissima percentuale di uomini e donne di oltre 100 anni...cosa sara' che fa vivere più a lungo gli abitanti di questa valle? Sara' l'aria? O forse l'acqua? Sembra che sia un mistero...

….lascio a voi le conclusioni... :)


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martes, 14 de febrero de 2012

VITA COMUNITARIA – OVVERO COME DOVREBBE FUNZIONARE IL MONDO

Intorno a Saraguro, tra Loja e Cuenca, nel sud dell'Ecuador, risiedono varie comunita indigene. I loro antenati, originari del lago Titicaca, al confine tra gli odierni Peru e Bolivia, furono portati nella zona di Saraguro dagli Inca per farli lavorare come mitimaes  (gli Inca, infatti, trasferivano membri di alcune comunita conquistate per compiere funzioni economiche, sociali, politiche, militari, specialmente se si trattava di comunita particolarmente forti e quindi potenzialmente pericolose per l'impero).
Gli uomini, che hanno rigorosamente i capelli lunghi, vestono con poncio e pantalone a tre quarti e le donne con gonna lunga, collana tipica e cappello. Alcuni membri di queste comunita fanno parte di una rete di turismo comunitario, che offre cioe alloggiamento, vita in famiglia e vari servizi ed attivita'. La rete e' rappresentata da una operatrice, una fondazione che organizza, pubblicizza e vende pacchetti che riguardano le comunita'. Noi, essendo arrivati a Saraguro un venerdi sera, quando i membri della fondazione non erano più nei loro uffici e sapendo che non li avremmo trovati fino al lunedi successivo, abbiamo deciso di chiedere informazioni in giro e presentarci comunque a casa di una famiglia della rete, tanto più che a noi pacchetti e pacchettini non ci calzano a pennello e in ogni caso il nostro budget non ci avrebbe  permesso di essere i turisti ideali dell'operatrice, anche se in questo caso si trattava di una fondazione che faceva un lavoro probabilmente degno di attenzione e collaborazione.
Fatto sta che siamo arrivati a casa di Maria e Marcelo, nella comunita di Ñamarin, con la proposta di accampare invece di alloggiare nella stanza adibita agli ospiti e informando loro che i prezzi standard non erano alla nostra portata, ma che davvero eravamo interessati a passare del tempo nella comunita. Nonostante il nostro arrivo senza preavviso e il fatto che non ricoprissimo il ruolo a cui erano abituati, ossia quello dei classici turisti a cui offrono il servizio di accoglienza facente parte di un pacchetto organizzato, Maria ci e' venuta incontro nel prezzo ed ha comunque insistito affinche accettassimo la loro ospitalita in casa. Dopo aver lasciato gli zaini, l'abbiamo raggiunta in cucina, dove abbiamo conosciuto il resto della famiglia e collaborato a fare il pane, cosa che, ovviamente, per Nico e' stata un presagio di una convivenza indimenticabile. Marcelo e' colombiano di nascita, ma entrato a far parte della comunita in quanto marito di Maria. Si dedica alla comunita, alla famiglia, all'orto e alla carpenteria, fabbricando dei mobili eccellenti in legno di pino, che si possono ammirare nella loro casa e in quella di vari vicini. La figlia maggiore ha 14 anni, e' una brava studentessa e, quando non e' a scuola, aiuta con dedicazione la mamma nelle sue faccende. Ha 3 fratelli, che vanno dai due agli 8 anni, tutti molto educati, un po timidi ma simpatici, incluso la più piccolina, che all'inizio non voleva nemmeno salutarmi e alla fine non mi ha lasciata sola un attimo! Maria si occupa, oltre che della famiglia, dell'orto, dei porcellini d'India e dell'artigianato, creando bellissimi gioielli con perline e pietruzze, che collaborano al mantenimento della tradizione di Saraguro. Durante la settimana che ci siamo trattenuti, si e' instaurata una amicizia ed una collaborazione spontanea nella vita quotidiana. Abbiamo partecipato alla preparazione dei pasti, alle pulizie e ai lavori nell'orto e il tutto in un susseguirsi naturale degli eventi. Loro ci hanno insegnato alcune tecniche di artigianato e raccontato com'e' organizzata la comunita, noi abbiamo svelato l'arte della pizza (!!!) e, insieme, abbiamo discusso, riso e ci siamo scoperti a vicenda, tanto che al momento della partenza eravamo tutti commossi e riconoscenti l'un l'altro per il tempo passato insieme. Ci han detto che hanno instaurato con noi un rapporto insolito e che ne erano felicissimi e questo ci ha riempito di gioia.
Grazie a loro, inoltre, abbiamo avuto la possibilita di partecipare ad una minga. Minga e' un termine quechua che si riferisce ad una antica tradizione di lavoro comunitario o collettivo con fini di utilita sociale. Puo avvenire a beneficio di tutta la comunita o di un singolo individuo o famiglia. In questa comunita fa addirittura parte delle regole di convivenza. Anche in Patagonia, avevamo partecipato a varie minghe per aiutare amici in vari lavori o altre volte amici avevano aiutato noi, ma al massimo eravamo riusciti ad essere una decina di persone. Mai avrei pensato di vedere cio che ho visto in questa occasione a Saraguro. Quando la mattina ci siamo trovati con i membri della “nostra” comunita eravamo quasi un centinaio e nel camminare verso il luogo della minga avevo i brividi dall'emozione. Una volta arrivati mi sono accorta che c'era anche gente delle altre comunita vicine ed, in totale, eravamo circa 300 persone. TRECENTO. Non so se riusciate ad immaginare trecento persone, di cui donne e uomini dai 14 agli 80 anni con pale e picchetti, lavorando tutti insieme per un fine solidale. Non credo. E non credo che possiate immaginare quanto questo gruppo di gente abbia potuto fare in un giorno, scavando fossi e canali per il drenaggio spalla-spalla. Si lavorava uno vicino all'altro e, una volta finito il pezzo di terra che aveva davanti, ognuno saliva su in collina, per raggiungere l'ultimo compagno che stava lavorando e iniziare nuovamente a scavare da quel punto. Senza troppa fatica abbiamo scavato canali su una superficie di due o tre ettari o forse di più, facendo in un batter d'occhio un lavoro che le sole famiglie della comunita avrebbero potuto fare in vari mesi. Il tutto in un'atmosfera di festa, con tanto di pranzo per tutti offerto dalla comunita in difficoltà. Noi eravamo gli unici stranieri e siamo stati accolti benissimo e coinvolti nella questione. Varie volte, quando mi guardavo intorno, ho avuto le lacrime agli occhi, avrei voluto che tutto il mondo assistesse a quel momento, che tutti potessero vivere quel che stavo vivendo io. Avrei voluto che in tutte le televisioni del mondo, invece dei i telegiornali in cui si parla delle solite cazzate e delle solite cose che dice la solita gente di merda, facessero vedere la minga, che facessero vedere tutte le minghe del mondo, perché son sicura che se tutti vedessero cio si sveglierebbero improvvisamente e capirebbero come deve andare il mondo. Io sono estremamente riconoscente per aver partecipato a questa esperienza comunitaria e sono sicura che questo possa essere il futuro del nostro pianeta. Credo che i popoli indigeni che sono riusciti a non soccombere alla civilta occidentale, insieme con altra gente nel mondo che via via si sta “svegliando”, siano i promotori di una nuova civilta. Ora che sta crollando questa nostro sistema capitalista che, nel bene e nel male, ha per molto tempo dominato il mondo, puo nascere qualcosa di nuovo e diverso e, forse, questa novita sara costituita da elementi vecchi, anzi, ancestrali che molti popoli hanno salvaguardato nonostante le pressioni della cultura dominante e hanno tramandato di generazione in generazione. Mentre scrivo queste cose tremo, perché, malgrado sappia che molta gente ne ridera', sento davvero che queste culture non sono riuscite a sopravvivere senza motivo. Spero che stia arrivando il momento della rivincita, ma non una rivincita come la intendiamo noi, cioe' di vendetta e supremazia, bensi una rivincita per l'umanita, una rivincita come la intendono loro, per il bene comune, compreso quello della nostra Terra. E credo di non essere l'unica a pensarlo, sembra che i popoli indigeni stiano recuperando la consapevolezza della loro cultura e, in vari contesti, forse ancora pochi, anche i loro diritti (qui in Ecuador, come in Bolivia, c'è' stato un cambiamento della costituzione a loro favore, riconoscendo, per esempio, la possibilita di autogestirsi in varie occasioni secondo le leggi indigene e non statali). Inoltre e' uscito un libro che si chiama “Que es el Sumakawsai – mas alla' del socialismo y del capitalismo” che sembra appunto trattare l'argomento di un nuovo sistema basato sulla concezione indigena del mondo. Posso dire che il Sumak kawsai e' un concetto che per noi si puo avvicinare a quello di decrescita (la decrescita felice di Maurizio Pallante) ma non è esattamente questo. Per i popoli indigeni, che vivono secondo una cultura permanente e non volta allo sviluppo economico, si parla piuttosto di “buon vivere”, che e' appunto la traduzione del termine quechua in questione e significa vivere in armonia con gli altri e con l’ambiente. Questo il concetto di Sumak Kawsai, ma il libro non l'ho ancora letto e percio non posso dare un giudizio a riguardo. E' comunque segno di un riemergere di questi popoli, cosa che auspico e sui quali invito tutti ad informarsi, magari imparando, o ri-imparando (perché anche la nostra cultura un tempo era ugualmente ricca) qualcosa.

sábado, 11 de febrero de 2012

Tesori dell'Equador

Questa volta abbiamo fatto uno strappo alla regola e abbiamo visitato Quito, la capitale. Siamo stati solo un paio di giorni ma ci e' sembrata carina (ovviamente coloniale) tranquilla e serena, nonostante sia ai piedi di un vulcano (secondo amici siciliani che vivono vicino a Catania, chi vive vicino ad un vulcano attivo e' un po fuori di testa a causa delle radiazioni sprigionate dalle rocce laviche che lo circondano). Naturalmente non abbiamo visitato molto la parte nuova, che magari ignoriamo essere un bordello pazzesco. Abbiamo fatto visita ad un bel museo di arte precolombiana e camminato ore ed ore, nonostante mi mancasse un po l'aria, non so se per la vecchiaia o per i 2850 metri di altitudine. In ogni caso non le abbiamo concesso più di una visita fugace.

Non e' che stiamo boicottando le città, e' che per visitarle bene, e capirle, servirebbe più tempo e noi non ne abbiamo tantissimo (...tutto e' relativo!). Inoltre e' più facile relazionarsi con la gente dei paesini, fare due chiacchiere con loro e magari passarci insieme più di pochi secondi. Insomma, fuori delle città avviene più facilmente uno scambio. Per non parlare del fatto che in città la gente e' più omologata, spariscono i tratti culturali per far spazio alle mode. I cittadini sono tutti molto simili tra loro. Si puo dire che un abitante di Quito assomigli di più ad un abitante di Roma che ad uno di un paesino dello stesso Ecuador. Per di più stare in città e' caro e quindi, tirando le somme chi ce lo fa fare a diventar matti con gli zainoni nei mezzi pubblici, o in mezzo al traffico, respirando smog e andando a sbattere a gente di fretta che dopo quel secondo non rivedrai mai più, se possiamo farci passeggiate in mezzo alla natura godendoci il paesaggio, rispondendo alla gente che ti saluta con un sorriso e che magari ogni giorno conosci un po di più e forse ti racconta la sua storia e quella del posto?


Per andare verso sud avevamo tre possibilità: la costa, la cordigliera o la Amazzonia. Abbiamo scelto la terza opzione: l'Oriente, come chiamano qui la zona amazzonica. La costa, dopo aver passato tanto tempo ai Caraibi non ci chiamava molto, tanto più che poi in Perù ne faremo una buona parte. La cordigliera ci chiamava, ma l'Amazzonia usava l'altoparlante.


Quindi ci siamo diretti verso est e dopo 5 o 6 ore di pullman siamo approdati a Misahualli, un porto dove si incrociano il fiume Misahualli, da cui appunto prende il nome, e il Napo. Si tratta di fiumi importanti, come tutti i fiumi nella foresta, perché sono le uniche vie di comunicazione soprattutto man mano che ci si inoltra nella giungla. A parte la piazza principale occupata dalle scimmie, il paese in se' non offre molte attrazioni. E' il fiume la vena pulsante, dove si svolge maggiormente la vita e dove scorre l'energia. Sulla sua superficie le canoe portano la gente nelle varie comunità indigene stanziate sulle sue rive. Ed e' sempre li' che i cercatori d'oro, ossia giovani del paese o delle comunità, svolgono la loro attivita'. Da qualche anno, ci raccontava il ragazzo che guidava la nostra canoa, hanno iniziato a costruire in maniera casereccia delle macchine che con un motore spruzzano acqua da un tubo lavando la terra e selezionando l'oro. E' comunque un lavoro duro, che viene fatto su zattere anch'esse caserecce, bagnandosi nel fiume, con il sole o con la pioggia. Il giro in canoa comprendeva la visita a due comunità: di cui in una era offerto, prezzo a parte, uno spettacolino di danza indigena e un mini-rituale fatto da uno shamano. Tutto molto, estremamente, troppo turistico, ma comunque interessante se non altro per vedere che esiste anche questa spettacolarizzazione della cultura. Probabilmente quelle comunità, come poi ci raccontava un signore padrone di un ristorante in paese che era nato nella giungla più a nord, non sono quello che vogliono far credere ai turisti. Ma, come dice l'antropologo Marco Aime, a volte le danze per i turisti servono per mantenere viva una tradizione che altrimenti sparirebbe con i tempi moderni. Puo succedere anche che l'interesse turistico aiuti a far riflettere sull'importanza della propria cultura. In ogni caso a me ste cose non mi sconquinferano troppo. Fatto. Interessante. Grazie. Ma non credo si riproporrà l'occasione. Preferirei, con più tempo, inoltrarmi un po di più nella foresta e passare veramente qualche settimana in una comunità. Sarà per un'altra volta.


Lasciata l'Amazzonia, siamo rientrati verso il centro del Paese e quindi verso la cordigliera e dopo una notte a Baños e una mattinata rilassante nelle sue preziose e sacre acque termali, ci siamo diretti a Cuenca, dove pensavamo di rivedere Tad, l' amico americano con cui avevamo attraversato l'oceano in barca e poi viaggiato fino a Taganga, ma se n'era gia' andato verso la costa. Ragion per cui, dopo una notte in un hotel che sembrava un carcere, siamo andati ad Ingapirca, un paesino da non perdere a 3100 metri di altitudine. La cosa che rende unico questo posto non e' il paese odierno, ma quello antico: mi riferisco al sito archeologico della città cañari prima e inca poi. Questa zona era abitata dagli indios Cañari, i quali avevano costruito le loro abitazioni e il loro tempio, sopra cui ricostruirono gli Inca, una volta conquistato il territorio. E questa sovrapposizione e vicinanza si vedono tuttora, riuscendo a distinguere la paternità dei resti dal fatto che le costruzioni Cañari erano di forma rotonda mentre quelle incaiche di forma rettangolare. I Cañari non lavoravano la pietra che usavano mentre gli Inca si. I primi adoravano la luna (ed erano un popolo matriarcale: evviva i Cañari!) e i secondi il sole, anzi, si definivano, i capi, figli diretti del sole. Si trovano quindi resti di templi cerimoniali dedicati alla luna e un grande tempio, tutt'oggi in piedi, dedicato al sole. Nella città incaica inoltre una buona zona era dedicata ai commerci e all'agricoltura, che veniva praticata grazie alla costruzione di terrazze. Come al solito mi sono emozionata nel vedere testimonianze di culture cosi grandi e interessanti, come quella incaica, annientate fisicamente prima e culturalmente poi (in realtà e' un processo che continua anche oggi) dalla nostra civiltà o di culture che non si sa nemmeno che siano esistite, o quasi, come nel caso di quella Cañari.


La notte l'abbiamo passata chiedendo alla padrona di un ristorante di accampare in prossimità della sua struttura. Ci ha concesso di mettere la tenda sotto la tettoia vicino all'entrata, il che ci ha protetto dal solito acquazzone notturno e dal freddo, che, a questa altitudine si fa sentire. Affittava anche camere, ma con la tenda ce la siamo cavati con 5 dollari in due e abbiamo potuto regalarci una bella cenetta. Bella si fa per dire, dato che qui, nei ristoranti, più di riso, uovo e insalata non ti mangi, soprattutto se, come noi, non mangi la carne. Ma il posto era accogliente e la famigliola ospitale. Per non parlare della vista: il tempio inca dedicato al sole. Il giorno dopo, prima di andarcene, facendo una passeggiata abbiamo conosciuto un'anziana signora che, seduta fuori della sua casetta, ci ha invitato ad entrare nel magazzino dove conserva, espone e propone alla vendita pezzi archeologici trovati dal marito mentre lavorava la terra. Si trattava di monete probabilmente inca e ceramiche varie, tra cui delle anfore abbastanza in buono stato. Ci ha detto che i musei non hanno soldi per comprargliele e che lei in qualche modo deve farsi due spiccioli, anche perché ormai lei ed il marito son vecchi e non ce la fanno più tanto a lavorare la terra. Quando poi abbiamo saputo che molti stranieri le hanno proposto di vendere la casa (a pochi metri dalle rovine cañari-incaiche, con una vista da cartolina) ma che lei non vuole perché vive li dalla nascita, e prima di lei suo padre e prima suo nonno e bisnonno e non saprebbe che fare in paese, allora non abbiamo resistito ed ora, per due lire, siamo proprietari di una moneta incaica con un bella incisione di un sole...


...ma shhhhhhh, che non si sappia in giro, e' un segreto!

miércoles, 8 de febrero de 2012

Y se fue la Colombia...

O mejor dicho nosotros nos fuimos de colombia. Estuvimos al final, entre una cosa y otra, un mes. Llegamos el 24 de diciembre a Taganga, despues de un fatidico viaje a traves de venezuela. Estuvimos alli algunos dias disfrutando de sus playas y de la buena compania que encontramos en lo de Mr.Wilson. Siguiendo recomendaciones de otros viajeros nos fuimos unos dias a acampar al parque nacional tayrona que protege un espacio terrestre de selva cercano a la costa donde desde hace unos miles de años habita el pueblo tayrona. Alli, ademas de las increibles playas hay un sitio arqueologico en lo que fue una de las primeras ciudades que esa civilizacion construyo. Pueden observarse principalmente terrazas hechas con muros de piedras que eran utilizadas como cimientos de las construcciones algunas o espacios de cultivos otras. Las "calles" son todas de piedra, y lo mas impresionante es el camino de acceso a la ciudad. Kilometros de camino en medio de la selva recubiertos en piedra, con puentes monoliticos que atraviesan arrollos, escalones tallados, pasajes sobre grandes bloques y hasta una "portal" que obliga a pasar agachados entre dos grandes bloques.
Los tayrona, junto con otros pueblos de las tierras bajas del norte colombiano, fueron no solo grandes constructores sino tambien agricultores, ceramistas y orfebres. Algunos de sus trabajos pudimos verlos en el museo del oro de cartagena, por donde pasamos al regreso del parque, luego de volver a pasar por taganga. De lo poco que los españoles no se llevaron cuando saquearon estas tierras algunas piezas se exiben en distintos museos del oro en distintos puntos del pais. Alli puede verse no solo las distintas tecnicas de trabajo del metal, sino tambien otros aspectos de su cultura. Fue interesante ver el sistema de manejo de aguas que utilizaban en grandes areas inundables donde practicaban la agricultura. Fue triste ver, yendo de cartagena a medellin, como hoy esas tierras no vienen mas trabajadas y en vez de ser una de las riquezas de la region se han convertido en un problema para la gente que las habita, que habiendo perdido su cultura, ahora depende de la ayuda estatal y la caridad cada vez que el agua sube demasiado.
A diferencia de otros paises de america latina donde las poblaciones originarias tienen una presencia muy fuerte en colombia gran parte ha sido "integrado" o destruido, y lo poco que queda esta escondido y en muchos casos son comunidades cerradas las cuales no siempre aceptan visitas de extraños. En colombia es fuerte la infuencia del hombre blanco, fue punto de entrada de los españoles al continente durante mucho tiempo y es por eso probablemente que el nivel de mestizaje sea tan alto, aunque con diferencias, claro, segun la region. Antioquia, con su capital medellin, es sin lugar a dudas el centro "blanco" de colombia. Los antioqueños, o "paisas" como se los conoce, son conocidos en el resto del pais por creerse superiores a los demas. Viajando en autobus por el sur de colombia me decía un joven de rasgos indigenas que estudia informatica que cuando haya termiando sus estudios iria a probar suerte a cali o bogota; en medellin, a pesar de ser una ciudad pujante y con oportunidades, las puertas para uno que no es paisa no se abren. Son los paisas que acostumbran ir a civilizar el resto del pais y no al reves.
En todo el país la aristocracia se quiere blanca, tambien en el eje cafetero. Asi nos contaba Mar, quien nos hospedo en el quindio, la zona cafetera. Con su arte viajo por europa toda, pasando años antes de volver casi sin planearlo a crear la reserva natural que ahora tiene en boquia, cerca de salento. Alli pasamos casi una semana disfrutando del cobijo que nos dio la vegetacion y aprovechando para visitar la zona. Estuvimos en una finca cafetera viendo el proceso del cafe de la siembra a la taza, y hemos podido observar el impacto que tiene el cultivo del cafe sobre el ambiente. Mucho peor que su cultivo es hoy el problema de que en muchos casos por la baja del precio las tierras que fueron desboscadas para el cultivo del cafe hoy son dejadas como potreros para el pastoreo de ganado bovino; mas que eje cafetero nos parecio de visitar el eje vaquero de colombia. Esas grandes extensiones que no tienen hoy sombra se secan y calientan mucho mas rapido que aquellas cubiertas por el bosque originario provocando un cambio en el clima que ya no obedece mas a los viejos patrones establecidos de temporada seca y de lluvias. A pesar de todo, como siempre y en todos lados, hay quien le pone el pecho a las balas. Estuvimos visitando el proyecto agroecologico de la granja de mama lulu, donde una familia humilde opto reconvertir su finca cafetera para la autosuficiencia para evitar de emigrar a la ciudad, destino de muchos cafeteros que no han podido soportar las caidas de los precios.
Como ellos, nosotros tambien nos fuimos de la zona cafetera, siguiendo hacia arriba el cauce del rio cauca (uno de los principales del pais) hasta llegar casi a sus nacientes. Estuvimos casi una semana tambien en San Agustin, un poblado en las montañas sobre el rio magdalena (junto con el cauca el otro gran rio del país, que nace ahi cerquita y que tambien desemboca en el caribe). Esa zona ha sido habitada por gente que ha remontado estos grandes rios hasta sus nacientes hace ya mas de 2000 años. En su paso por esas tierras las culturas san agustinianas han dejado un asombroso recuerdo a traves de las estatuas y ornamentos de piedra y otros materiales en sus sitios funerarios. Entre camintas y visitas a sitios arqueologicos hemos compartido lindos momentos con nuestros vecinos, una pareja argentina-peruano, ella artesana y el malabarista, que estaban viajando con su arte. Ambos alquilabamos habitacion en casa de la señora Ortencia, que junto a marido, hijos y gallinas componen una particular familia. Nuestra habitacion, junto al gallinero, tenia la ventaja de ser una de las mas economicas en todo el pueblo, pero venia acompañada de amaneceres al alba (cuando canta el gallo, como se suele decir) y de un persistente olor a gallina, que de a ratos podia ser demasiado.
Por no querer volver hacia atras hacia Popayan (ciudad colonial agradable que ya habiamos visitado fugazmente) en nuestro camino hacia la frontera con ecuador, decidimos ir hacia mocoa, en la region "caliente" del putumayo. Caliente por dos motivos: uno es que se encuentra en las tierras bajas hacia la amazonia colombiana y por ende con temperaturas tropicales, pero sobre todo porque es en esas tierras que todavia anda dando vueltas parte de la guerrilla colombiana. Aparentemente la situacion ha mejorado en los ultimos dos o tres años y asi poco a poco van surgiendo hospedajes y operadores turisticos nuevos; pero al decir de algunos, esa tranquilidad es solo aparente y limitada a ciudades y ciertas rutas de interes particular para la extraccion de petroleo y ciertos minerales. Como sea hemos pasado un par de agradables dias en compañia de la familia que nos hospedo en su recientemente inaugurado (aunque aun no terminado) hostal, donde acampamos entre bananos y hormigas gigantes. Con la fortuna de nuestra parte la mañana que decidimos partir habian venido a visitar el lugar unos muchachos de una productora de tv que estaban haciendo la preproduccion de un programa de deportes extremos en distintos lugares de colombia. La casualidad quiso que ese mismo dia partieran en su camioneta hacia el mismo lugar donde ibamos nosotros y con lugar para llevarnos. Asi, llegamos a nuestra ultima etapa colombiana: Laguna La Cocha.

Este lugar, segun he leido, y lo creo luego de haberlo visitado, era de particular importancia para los pueblos originarios de la region y era considerado un fuerte centro energetico. Hoy dia todo el lago se encuentra rodeado de habitantes rurales que cultivan principalmente papa en tierras que van desde los 2800 metros hasta mas de 3000. El principal acceso al lago es a traves de un poblado a orillas de un canal, al que se lo compara (por sus puentes y con mucha fantasia) a Venecia. La actividad principal alli parece ser el turismo, viven unas ciento cincuenta familias y hay mas de cien lanchas que se dedican a llevar turistas a pasear por el lago. Caminando por el canal hacia la orilla del lago encontramos un motorhome con sus simpaticos habitantes: una pareja de artesanos italiana-peruano y un amigo musico mejicano que los acompañaba. Luego de charlar un rato decidimos saludar a nuestros compañeros de viaje que debian seguir hacia la ciudad de Pasto y nos pusimos a armar nuestra carpa para pasar nuestra ultima noche colombiana en ese hermoso lugar y con buena compañia. La mañana siguiente luego de hacer el recorrido turistico en lancha con nuestros nuevos compañieros, desarmamos todo y nos fuimos con ellos y su vehiculo hacia Pasto desde donde tomariamos un bus a la frontera. Asi, contentos por la belleza y variedad de lugares y personas conocidas dejamos colombia luego de un mes exacto, aunque si parecio mucho menos, pero sabiendo que debemos apurar el paso para poder cumplir los objetivos del viaje.

miércoles, 1 de febrero de 2012

ADDIO REMOTO...AVANTI IL PROSSIMO (ENTRANDO IN ECUADOR)

Ce la sto facendo, non sono più tanto indietro col racconto...un po alla volta mi avvicino al presente...e mi concedo licenze poetiche.

ordunque, dove eravamo arrivati?

La frontiera!

Attraversare la frontiera tra Colombia ed Ecuador e' stato come bere un bicchier d'acqua. Niente a che vedere con l'avventura vissuta nell'attraversare quella da Venezuela a Colombia. Diciamo che e' sembrato, piuttosto, come fare una commissione alle poste. Anche per cambiare i soldi (da pesos colombiani a dollari americani...eh si, qua usano i dollari, poveracci) pensate che siamo andati in un ufficio del cambio. Eh, lo so, un po noioso, eh?

Con il nuovo timbro nel passaporto, tutti felici abbiamo raggiunto con l'autobus Tulcan, la città più vicina, dove abbiamo semplicemente passato la notte, per poi andare verso Ottavalo, la prima vera meta ecuadoriana.

Otavalo e' una cittadina in mezzo alla cordigliera a un centinaio di km a nord di Quito. I suoi abitanti, per lo più indigeni, vestono ancora coi vestiti tipici e parlano tra loro quichua. Se ho ben capito, il quichua e' diverso da quechua, ossia la lingua che parlavano gli inca e che si parla in Peru e Bolivia. Ha la stessa radice e deriva da essa, ma e' una variazione, come se fosse un dialetto. Sembra che la zona di Otavalo sia sempre stata forte culturalmente, tanto che i suoi abitanti resisterono agli Inca per 17 anni e si puo dire che resistendo anche alla cultura spagnola, che, infatti, non e' riuscita ad imporre totalmente la sua lingua.I suoi abitanti si dedicano alla tessitura artigianale e fabbricazione con macchine di vestiti e altri prodotti, alla coltivazione del mais e all'allevamento di mucche. Le galline, come in Colombia, sono dappertutto, nelle aie, per le strade di campagna, tra le colline. I vestiti tipici consistono in poncho di lana e cappello per gli uomini, che normalmente portano i capelli lunghi e legati e gonna lunga nera con ornamenti colorati e camicetta bianca ricamata per le donne. Inoltre le donne indossano una collana dorata, o color oro, a più file di
maglie sul collo e orecchini dello stesso materiale. Per legarsi i lunghi e foltissimi capelli neri luccicanti, usano un cordino colorato e tessuto a macchina. Nelle campagne magari invece dei gioielli indossano un grande telo dove mettono la paglia, le verdure o i vari prodotti da trasportare. I bambini maschi qui hanno quasi tutti i capelli fino alle spalle e sono bellissimi. Le bambine, spesso, continuano la tradizione indossando i vestiti tipici anche in città'. Addirittura le teenager, che in Italia si vergognerebbero a morte.Noi abbiamo scelto di alloggiare a Peguche, un paesino a 15 minuti di cammino da Otavalo, vicino ad una cascata. Con 4 dollari (meno di 4 euro) abbiamo affittato una camera doppia in casa di Matilde e Luis, una giovane coppia con il loro piccolo bimbo. Il posto era uno di quelli consigliati da amici conosciuti lungo il cammino, soprattutto argentini (gli americani e gli anglofoni in generale, di solito vanno in ostelli tipo backpackers che son molto belli e comodi, ma costano almeno il triplo e sono tutti uguali in atmosfera. Non e' che siano scemi, e' che magari la difficoltà' linguistica non permette loro di trovare realtà' diverse da quelle descritte nelle guide) e infatti insieme a noi vivevano due cileni, che si pagavano il viaggio con la loro musica (flauto e charango), una argentina che cantava e suonava la chitarra, un colombiano che anche lui suonava non so che e una norvegese, che parlava benissimo lo spagnolo e che in questo momento stava lavorando in un bar di Otavalo). Camminando per le vie di Peguche si sentono rumori di macchine tessili, infatti in questo paesino vengono fatti gran parte dei prodotti che poi si vendono al mercato di Otavalo, un mercato coloratissimo tipo peruviano che il sabato scoppia di gente, sopratutto locali, che scendono dai paesini per vendere i loro prodotti tessili, della terra e addirittura per vendere animali. Si dice sia il mercato artigianale indigeno più grande di tutto il Sud America e i suoi prodotti si trovano in tutto il mondo.

Camminando per una strada o per un sentiero dietro la cascata, se si segue il fiume si arriva ad una laguna molto grande. Se poi lo si fa in un giorno di sole, come abbiamo fatto noi, si vedono tutti gli abitanti della zona che, in gruppetti, chiacchierando e ridendo, lavano i panni nel fiume e li mettono ad asciugare sull'erba.

Beh, come primo impatto con l'Ecuador non e' stato niente male, eh? Credo proprio che questo paese, di cui sapevo poco o niente, mi sorprenderà un sacco.